Persone molto lontane e
diverse tra loro si ritrovano in «Cent’anni di solitudine»
Tutti, o quasi tutti, hanno
letto Cent’anni di solitudine. Tutti, o quasi tutti, si ricordano dove e quando
lo hanno letto. Il romanzo è lungo e complicato, oltre a essere bellissimo. E
quindi non era consigliato leggersene qualche pagina prima di andare a dormire.
È questa la magia di certi romanzi: se li vuoi capire, se ci vuoi stare dentro,
devi galoppare tra le pagine; e però hanno sviluppato un antidoto alla
costrizione, una potenza della pagina che ti avvinghia e ti fa galoppare. E ce
n’è un’altra di magia: chi ha letto Cent’anni di solitudine, mentre lo leggeva,
si è dimenticato del mondo delle cose da fare, dei baci da dare, dei compiti
da svolgere; si è dimenticato di mangiare, di dormire, e ha fatto un sacco di
confusione tra la vita propria e quella dei personaggi, tra la propria città e
Macondo.
Nessuno ricorda la trama, o
l’intreccio dei personaggi. Si ricordano le code di maialino, la fucilazione,
un castagno; si ricorda come muoiono i personaggi ancora più di come hanno
vissuto. Ma soprattutto è quello che sta accadendo in queste ore, con le parole
che rimbalzano tra i social e i giornali e le tv e i caffè affollati si ricorda
di aver tenuto tra le mani quel libro, di averlo cominciato ed esserci caduto
dentro. Si ricorda quando e dove si è letta la parola Macondo e il fatto che un
romanzo cominci con le parole «Molti anni dopo...».
Si ricorda più di ogni
altra cosa una sensazione sfocata e precisissima: un sentimento di appartenenza
al genere umano, attraverso le vicende disgraziate di una famiglia e di una
città prima immaginata e poi costruita da José Arcado Buendía, il primo di una
lunghissima serie di Buendía.
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